Ricercatore e docente all’Università di Palermo, Andrea Cozzo è
soprattutto un attivista molto noto in quella città, oltre che un
teorico (e “pratico”) del pensiero nonviolento importante a livello
nazionale. Conoscendolo di persona, siamo amici ormai da anni, ne ho
approfittato per intervistarlo, incentrando l’attenzione su due
questioni: l’approccio nonviolento alla lotta alla mafia e la critica
al sistema d’insegnamento universitario. Ovviamente non ci siamo
limitati a discutere di questi soli due argomenti, ma abbaiamo toccato
molte altre questioni. Il tutto tramite una comoda, ma confesso
limitante, corrispondenza elettronica.
Sei un ricercatore
universitario, attivo nella facoltà di lettere di Palermo, dove tieni
corsi di Cultura greca, ma sei noto soprattutto per i tuoi lavori di
attivista. Certamente in ambito nonviolento sei un nome, sia a livello
locale, che nazionale. Potresti riassumere brevemente le tue attività
attuali? (riviste in cui scrivi abitualmente, corsi che tieni,
collaborazioni, ecc.)
All’Università, oltre al corso di Lingua e
letteratura greca, tengo un Laboratorio di “Teoria e pratica della
nonviolenza” (3 CFU)a cui partecipano ogni anni 30
studentesse/studenti, ma ho tenuto numerosi corsi di Gestione
nonviolenta dei conflitti in Centri sociali, nelle scuole (per studenti
delle scuole medie secondarie, e per docenti), e per le Forze
dell’ordine. Faccio parte del Comitato scientifico di “Quaderni
Satyagraha” e mi è capitato di scrivere, oltre che su questa rivista,
anche su “Azione nonviolenza” e “Segno”. Sulla nonviolenza ho scritto
diversi saggi; i lavori monografici di maggiore interesse (spero) sono
Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa
Milano, Mimesis 2004, e Gestione creativa e nonviolenta
delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine, Pisa Gandhi Edizioni 2007.
Visto
che sei l’autore di Conflittualità nonviolenta, ovvero di uno dei primi
tentativi italiani di risistemare “organicamente” l’insieme del
pensiero nonviolento, sei forse la persona più indicata a rispondere
alla domanda: che cosa vuol dire esattamente nonviolenza? Possiamo
definirla un etica, una morale, una teoria politica o una religione? O
forse è qualcosa d’altro?
Direi che la nonviolenza può essere
intesa ad almeno due livelli: uno, per così dire, pragmatico ed uno
etico. Nel primo caso essa consiste in una serie di tecniche e regole
(regole comportamentali, non formule magiche) la cui conoscenza
contribuisce alla risoluzione dei conflitti senza che si debba
ricorrere all’uso della violenza (neanche a quella di difesa) – sia
essa fisica o verbale o psicologica. Nel secondo caso la nonviolenza
può essere definita un “habitus”, una “forma mentis”, che muove chi la
adotta non solo nei casi di conflitti, ma in ogni atto della sua vita,
costituendo una sorta di filosofia dell’individuo e ha a che fare con
una visione economico-politica: per dirlo in estrema sintesi e con una
espressione che, per chiarezza, andrebbe sviscerata nei dettagli, con
un liberal-socialismo ecologista (ma Gandhi lo chiamava, più
radicalmente, comunismo). In realtà, se sono veri i cosiddetti IV e V
principio della termodinamica (cioè che “perché un esperimento riesca,
bisogna crederci”, e che “nessun esperimento riesce mai a primo
colpo”), allora una base di fiducia nella validità delle tecniche
nonviolente e un minimo di esercizio continuato in esse diventano
elementi necessari perché la sua applicazione risulti efficace. A
scanso di equivoci, mi preme dire che in entrambi i casi la nonviolenza
non è buonismo o accettazione passiva delle prepotenze –individuali o
sociali, che siano-, ma lotta senza quartiere per il loro superamento.
La nonviolenza è per conflittualità, non per la sua eliminazione: i
soprusi e lo sfruttamento devono essere combattuti e non taciuti o
accettati, ma la lotta deve avere alcune caratteristiche che le rendano
tra l’altro effettivamente ‘vincenti’, prime tra tutte quella di essere
dirette contro le azioni e non contro le persone e quella di adoperare
mezzi eticamente omogenei al fine. Due parole su quest’ultima
caratteristica che può risultare non chiara: in opposizione al
principio borghese –e per nulla comunicativo- per cui il fine
eticamente buono giustifica i mezzi cattivi, Gandhi sostiene e pratica
che per raggiungere fini che si ritengono eticamente buoni, per evitare
che ci si autolegittimi in tutto (cosa che possono fare
autoreferenzialmente tutte le parti in conflitto), bisogna adoperare
mezzi che si ritengano buoni dal punto di vista etico; diversamente,
non si può criticare il proprio avversario perché usa a suo vantaggio
anche qualsiasi mezzo che gli permetta di vincere.
Come giudichi
l’influenza che il tema della nonviolenza ha avuto negli anni nella
vita di molti partiti “ufficiali” della scena politica italiana? Dai
Radicali a Rifondazione Comunista non sono mancate “sensibilizzazioni”
al tema, se non proprio delle “conversioni”.
Molto sinceramente,
mi pare che sia nei Radicali sia, ultimamente, in Rifondazione
Comunista, la nonviolenza sia soprattutto una bella parola, poco
rispondente a metodi di lotta dei due partiti in questione. Dalla
nonviolenza i Radicali hanno attinto principalmente il ricorso agli
scioperi della fame e/o della sete e Rifondazione, a sua volta, ha
fatto riferimento ad essa per scoraggiare l’uso della violenza
(utilizzando il termine”nonviolenza” più o meno come sinonimo di
“pacifismo”), ma nessuna delle due formazioni politiche ha fatto mai
nulla per far crescere la cultura della nonviolenza nella società
civile, né ha mai organizzato con la gente lotte seguendo metodi
nonviolenti.
Da siciliano vivi quotidianamente in una terra di
conflitto. Prima ancora che da attivista e da “studioso”, come vivi e
vedi umanamente il problema della mafia?
Per me, vivere in una
contesto mafioso vuol dire in primo luogo vedere quotidianamente un
certo modo di relazionarsi che si acquisisce fin da ragazzini e sempre
più negli anni quando, anziché apprendere che c’è un sistema di leggi
che tutela i diritti di tutti, si scopre che il rispetto è una cosa che
bisogna sapersi conquistare facendo il duro, ricorrendo alla minaccia o
alla protezione di chi è potente: è in questo brodo di coltura che la
mafia, godendo di un certo consenso sociale, cresce e prospera. Oggi
questa educazione viene rinforzata anche dalla televisione! Vivere in
un contesto mafioso significa anche vedere di tanto in tanto l’auto di
qualche commerciante o la saracinesca del suo negozio bruciate e capire
che, evidentemente, il Tizio si è arrischiato a rifiutarsi di pagare il
pizzo: quando poi vedi che il negozio ha cambiato gestore o che tutto è
tornato alla calma, capisci che il tentativo di ribellione non ha
sortito effetto e che chi lo ha messo in atto alla fine si è visto
costretto a cambiare mestiere o ad arrendersi. Significa, per fare un
ultimo esempio, vedere sorgere edifici in luoghi nei quali era vietato
costruire ma che improvisamente sono diventate aree edificabili. Perché
tutto questo avvenga, non basta –come da tempo sappiamo anche
ufficialmente- che la mafia sia solo criminalità organizzata: essa è un
sistema illegale strettamente intrecciato con quello politico che si
preoccupa di garantire legalmente la prevaricazione. Da questo punto di
vista, tutto il sistema neoliberista –dal livello macro della
globalizzazione, che clandestinizza il potere decisionale e mescola
sempre più i percorsi dell’economia legale con quelli dell’economia
illegale, a quello micro, in cui Berlusconi vara leggi che legalizzino
i suoi reati- è riconoscibile, per dirla con Umberto Santino, come
“modo di produzione mafioso”: la globalizzazione e il nostro tipo di
economia sono pertanto intrinsecamente criminogene, intrinsecamente
portatori di violenza e di sotterfugio.
Ci sono delle “chances”
per un approccio nonviolento alla lotta contro la mafia (o per una
soluzione nonviolenta del problema mafioso)? E se sì, quali sono le
differenze, il “di più” rispetto a quello che sta già facendo lo Stato
e soprattutto quello che fanno ogni giorno altre associazioni?
Sotto
la cura di V. Sanfilippo, abbiamo pubblicato un piccolo libro,
Nonviolenza e mafia (Trapani, ed. DG, 2005), che raccoglie gli
interventi fatti ad un Convegno che portava lo stesso titolo. Per
quello che mi riguarda (rifacendomi in parte anche a ciò che dicevo a
quel Convegno), penso che la nonviolenza può dare un grosso contributo
al superamento del sistema mafioso: a livello culturale, diffondendo
una cultura della responsabilità (ben diversa da quella della legalità
oggi di gran moda) e della gestione dei conflitti; a livello politico,
attivando pratiche di democrazia partecipata (come, per intenderci,
quella sperimentata a Porto Alegre); a livello giuridico, sostenendo il
passaggio da una giustizia repressiva e rieducativa ad una giustizia
rigenerativa (che favorisca la comprensione degli operatori di mafia e
quindi la loro trasformazione); a livello sociale, mediante lo sviluppo
di centri sociali e centri di mediazione di quartiere (che sottraggano
agli uomini di mafia il dominio del territorio spesso fondato proprio
sulla capacità di intervenire a favore di chi si rivolge loro per
risolvere conflitti con altri); a livello economico, mediante lo
sviluppo, biosostenibile, di una produzione e circolazione di prodotti
finalizzate al soddisfacimento dei bisogni piuttosto che
all’accumulazione. Nonviolenza e superamento del sistema
neoliberista-mafioso non sono due cose diverse.
Esempi di risultati concreti da parte di realtà nonviolente attuali?
Se
ti riferisci specificamente all’ambito delle azioni per la liberazione
dal sistema mafioso, ricordo il lavoro –in questa direzione e
contemporaneamente in direzione di emancipazione sociale tout court- di
Danilo Dolci a Partinico, Trappeto, Valle del Belice. Se vuoi esempi di
lotte nonviolente che si sono rivelate davvero efficaci in qualsiasi
ambito, basti citare a livello generale quelle femministe o quelle che
hanno portato alla caduta dei paesi cosiddetti comunisti; oppure, a
livello più specifico, il caso del Sudafrica di Mandela, del Mozambico,
delle Filippine: tutti luoghi in cui le dittature sono state abbattute
dalle lotte nonviolente. Sono solo alcuni esempi, ma nel mio libro
Conflittualità nonviolenta ne potrai trovare elencati molti altri.
Infine, se mi stai chiedendo di realtà organizzate “strutturalmente” in
modo nonviolento, posso ricordare le varie comunità dell’Arca fondate
da Lanza del Vasto in Francia, tuttora esistenti.
Come sta la mafia di questi tempi? I media
CIdanno l’idea di un
mostro cui sono state mozzate le teste, con gli arresti di decine di
boss. La mafia è davvero in crisi? Non sono specificamente uno
studioso di mafia, ma la mia impressione è che, se da un lato, i boss
mafiosi hanno avuto duri colpi, da un altro lato lo stretto e intricato
rapporto esistente tra mafia e politica non ci permette affatto di
considerare questo fenomeno in serie difficoltà.
Come giudichi il movimento Addio pizzo?
Lo considero una delle piccole cose molto positive soprattutto nel suo
momento iniziale, ma non mi pare che esso possa garantire certezze
nella lotta alla mafia, che –come è stato più volte accertato- non
esita addirittura a suggerire alle sue vittime di iscriversi ad
associazioni contro la mafia per non destare sospetti di pagare il pizzo… Se parliamo di nonviolenza e di Sicilia (e di lotta alla
mafia), viene in mente un nome su tutti: Danilo Dolci. Puoi parlarci di
questa figura, magari non nota a tutti come dovrebbe? Quanto è ancora
importante, attuale e vivo il suo lavoro ai nostri giorni? Danilo Dolci
si trasferì dal Nord a Partinico (Palermo) nel 1952 e vi visse e lottò
per 45 anni. Esordì con un digiuno che portò all’attenzione nazionale
il fatto che in Sicilia i bambini potevano ancora morire di fame. Oltre
a denunciare la mafia locale e i politici conniventi e ‘conseguentemente’ ad andare (lui!) in prigione, tra le altre cose
inventò e praticò, con i contadini della zona, lo “sciopero al
contrario”: aggiustando una strada di campagna altrimenti
impercorribile (anche questo gli costò l’arresto!), progettando e
costruendo la diga che ancora oggi dà acqua ai paesi del circondario e
alla stessa Palermo. E’ anche l’inventore della struttura maieutica”,
un modo di riunirsi e di prendere decisioni ‘dal basso’, che è in
qualche modo l’antenato della nozione di “democrazia partecipata”: non
si basa sulla pratica, che potremmo dire ‘borghese’, del dominio della
volontà della maggioranza, ma su quella dell’ascolto reciproco. Sulla
base di questo approccio elaborò e costruì, con gli abitanti di
Partinico e Trappeto, una scuola elementare e media che, per struttura
architettonica e per modalità di insegnamento, funzionava in modo non
autoritario.
Oggi, a circa dieci anni dalla sua morte, restano attive le persone che
con lui collaboravano più spesso, nonché alcune associazioni (qualcuna
fondata dai suoi figli), che portano avanti, sia pure in modo diverso,
le sue idee e i suoi metodi.
Un altro nome che da tempo ha ripreso a ricorrere fra i movimenti,
rispetto alla questione mafia, è quello di Peppino Impastato. Come
giudichi la sua figura?
Limpida e generosa. La figura di una persona capace di lottare la
prepotenza mafiosa anche quando essa era quella della propria famiglia,
e di vivere con coerenza il proprio dissenso nei confronti dello Stato
borghese.
Cambiando argomento, lavori ormai da anni all’interno del contesto
accademico. Cosa pensi di questo mondo (so che hai anche pubblicato un
libro sull’argomento)? È necessaria una rivoluzione nonviolenta
anche qua dentro? L’esperienza passata (di cui non ho potuto che vedere
le briciole) del “corpo basso” nella facoltà di Lettere a Palermo può
essere un punto di partenza?
L’Università è il luogo in cui si produce il sapere e lo si impone –il
linguaggio dominante, per eufemismo, preferisce dire “lo si trasmette”-
al resto della società. Poiché la conoscenza, lungi dall’essere neutra,
è sempre un certo contenuto di conoscenza, connotato in senso valoriale
(e non può non esserlo), e poiché la sua trasmissione avviene in
specifiche forme sociali (e dunque, di nuovo, valorialmente connotate),
nasce un doppio problema: quello della scelta dei contenuti e quello
della scelta delle modalità di trasmissione di quei contenuti. Per
intenderci: 1) perché va studiata la medicina farmacologica e non
l’agopuntura, o l’energia nucleare e non quella solare, o l’economia
industriale e non quella ecologica, o la filosofia occidentale e non
quella orientale, o più semplicemente Aristotele ma non Sesto Empirico,
e Kant ma non Montaigne? 2) perché la trasmissione del sapere viene a
coincidere, da noi, con la sua imposizione, a volte anche al di
là della volontà di alcuni docenti? Il sistema accademico risponde,
sostanzialmente, che il sapere che esso elabora è il frutto dell’unica
reale conoscenza scientifica in continuo progresso e che non ci sono
altre forme di trasmissione possibili. Insomma, esso è perfetto e non
ha nulla da cambiare: gli studenti, se vogliono davvero apprendere, non
hanno che da comprendere (ma in realtà sarebbe sufficiente dire:
“registrare”) ciò che viene loro insegnato e ordine e progresso saranno
assicurati. Dal mio punto di vista, questo modo di pensare è, anche al
di là delle intenzioni di chi lo adotta, intrinsecamente violento,
perché ignora di stare riproducendo come fosse naturale la società
esistente escludendo al contempo a priori gli studenti e le studentesse
dalla elaborazione del sapere che li/le impregnerà, senza che possano
avere coscienza del rapporto che c’è tra ciò che imparano e il modo in
cui imparano da una parte e i loro presupposti e valori dall’altra
parte. Gli studenti e le studentesse, per adoperare il vocabolario
della nonviolenza, vengono posti/e in posizione “minore” di fronte ai
docenti che occupano la posizione “Maggiore”. Fin qui, in realtà,
l’analisi può coincidere con quella di altri modi di pensare critici
nei confronti del sistema accademico. E’ la pars construens a
differenziare il pensiero nonviolento dagli altri, ed esso si è
incarnato, dal 1989 al 2001 circa pienamente e poi sempre più
stentatamente, nell’attività teorica e pratica del “Corpo basso” della
Facoltà di Lettere e filosofia di Palermo a cui tu fai cenno. Durante e
dopo l’occupazione dell”89, a cui io allora partecipai da dottore di
ricerca, per più di 10 anni abbiamo fatto una critica del sistema
accademico mostrando nei fatti quale poteva essere l’alternativa.
Nell’edificio denominato “Corpo basso”, parte della Facoltà di Lettere
adiacente al corpo centrale, una ventina di studenti, studentesse e
(unico prima dottore di ricerca, poi ricercatore) io, creammo una sorta
di università ombra: mettemmo in piedi prima uno, poi due, fino ad
arrivare a dieci, seminari annuali ognuno dei quali aveva cadenza
settimanale o bisettimanale (ogni volta 4 o cinque ore, spesso senza
nessuna interruzione) che portavano la titolatura di diverse discipline
istituzionali accorpate. Ad esempio, c’era un “seminario di filosofia
ed epistemologia”, uno di “lingua e civiltà greca e latina”, uno di
“antropologia, sociologia e geografia” ecc. Alla partecipazione erano
ammessi tanto studenti e studentesse (che arrivavano effettivamente in
gran numero e poi portavano ciò che avevano studiato in questi seminari
come “programmi alternativi” agli esami delle discipline di cui essi
erano ‘ombra’) quanto docenti. Le regole concertate erano 1) che si
stava in cerchio e non nella posizione frontale docente-discenti; 2)
che si stabiliva insieme un testo di 30-50 pagine –in continuità o meno
con quelle stabilite la volta precedente- che tutti avrebbero letto ma
due volontari si incaricavano comunque di riassumere oralmente
all’inizio dell’incontro successivo in modo da costruire una
piattaforma comune per gli interventi che da quel momento ci sarebbero
stati e potevano essere interventi per correggere o arricchire il
riassunto stesso o per commentare ciò che si era sentito o letto; 3)
che si parlava per alzata di mano e nessuno poteva interrompere chi
stava parlando (fermo restando che nessuno poteva parlare più di 10
minuti di seguito); 4) che nessuno citasse testi o autori che non
fossero patrimonio comune (dunque che non fossero l’oggetto di
quell’incontro o di quelli precedenti), sia per evitare che ci si
dovesse fidare del riferimento –che poteva essere anche sbagliato- sia
per evitare che la discussione si spostasse dall’oggetto comune al
testo o autore citato che poteva essere noto solo ad alcuni e dunque
escludeva tutti gli altri, sia infine per impedire che il testo citato
o colui che faceva più spesso citazioni potesse svolgere una funzione
autoritaria, mentre noi volevano che ognuno si persuadesse di ciò di
cui … si persuadeva davvero. Se non si potevano citare
autori non studiati insieme, si poteva però fare riferimento alle tesi
di un autore senza citarlo ma esponendone le idee come fossero le
proprie (e, in quanto effettivamente condivise, erano le proprie!):
così si era concordato che, ad esempio, a meno che non si stesse
studiando proprio l’Etica di Spinoza, non si usassero espressioni del
tipo “come Spinoza dice nell’Etica, ‘l’ordine e la connessione delle
idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose'”, ma la si
cambiasse in “io sono convinto che l’ordine e la connessione delle idee
ecc.”: se questa frase non veniva accettata, chi l’aveva pronunciata e
non riusciva a persuadere della sua validità poteva poi, alla fine
dell’incontro, proporre la lettura dell’Etica di Spinoza per prenderla
in esame tutti insieme. Naturalmente, i docenti non avevano alcuno
status privilegiato e partecipavano seguendo le stesse regole senza
eccezioni; e lo scopo, nel modo di intervenire, non era mostrare di
avere ragione o di arrivare ad una verità uguale per tutti, ma ad una
varietà di interpretazioni possibili da accettare sulla base della
coerenza che esse avevano rispetto ai presupposti extra-scientifici ad
esse sottese (e dunque, prima, da individuare). In breve, tutto era
frutto di negoziazione, ed era indispensabile non solo (legittimo)
giovanile desiderio di contestazione ma anche (pragmatica) matura
voglia di sforzo costruttivo, capacità di ascolto e di rispettare ciò
che era stato concordato senza alcuna imposizione, capacità di
autogestione della libertà perché non sfociasse in caos o in un tipo di
prevaricazione, diversa da quella istituzionale ma pur sempre
prevaricazione. Non so se sono stato chiaro, ma ti assicuro che
raccontare in poche righe la ricchezza organizzativa e la bellezza di
quelle pratiche, per me, non è facile. Comunque, ho esposto più
ampiamente cosa significa per me rivoluzione nonviolenta nel sistema
disciplinare e didattico nel III capitolo di Conflittualità nonviolenta
e, in particolare nell’ambito degli studi di Greco antico (l’altra mia
competenza professionale), in La tribù degli antichisti, Carocci Roma
2006.
Io e te siamo amici da ormai molti anni. Quando è uscito il
primo numero di questo giornale ti ho spedito il pdf del numero,
immaginando per la verità che non avresti apprezzato i toni un po’
troppo “aggressivi”, o per meglio dire, la strategia comunicativa
adottata. La tua critica si è centrata (come immaginavo) soprattutto
sul nome e sull’editoriale. Puoi riprendere e chiarire questi punti?
Hai
parlato di strategia comunicativa. Bene, vediamola provando ad
immaginare cosa succede quando uno si trova davanti il vostro giornale
“Ecrasez l’infame!”. Il titolo in francese allontana quelli che non lo
conoscono, così come il fatto di rivendicarsi come periodico
“antiliberale e comunista” allontana tutti quelli che non si
riconoscono in questa etichetta e quindi: fine della comunicazione
perché alla lettura dell’editoriale non ci arriva nessuno che non sia
già a priori antiliberale e comunista. Io penso che comunicare
significa mettere in comune, fare comunità e confliggere per la
costruzione di sempre maggiore comunità, e penso che il comunismo sia
la stessa cosa. Ora, se lo scopo di parlare a quelli che già sono
d’accordo (che per me è uno scopo strano, non molto diverso da quello
di parlare a se stessi), allora tutto questo va benissimo; ma se è
quello di dialogare con persone nuove allora non va più bene. Porsi
come cultori di lingua francese (o anche solo come conoscitori di
un’espressione originale di Voltaire) o come antiliberali e comunisti
in una società in cui questi termini sono stati ideologicamente
squalificati, presentarli smaccatamente davanti al proprio
interlocutore non significa sfidarlo al confronto sulle idee, ma
semplicemente sbattergli in faccia ciò che egli è stato abituato a
considerare nemico senza fare nulla per fargli cambiare idea, e dunque
rifiutarlo come interlocutore, come parte del progetto di comunismo.
Invece di mostrare a quelli che hanno pregiudizi verso i comunisti che
vale la pena parlarci, ci si limita a dire che si è comunisti. Il che
mi pare proprio il contrario di una “strategia comunicativa”. E poi, in
cos’è che tutto questo identitarismo “antilberale e comunista” mostra
il lavoro di “un collettivo eterogeneo e non identitario”, come si
legge poi
nell’editoriale? Se poi l’interlocutore non comunista
riflette sul titolo o addirittura arriva a leggere l’editoriale, beh
direi che a quel punto pensa proprio che i suoi pregiudizi non erano
tali, perché vi trova espressi proprio una violenza verbale e
concettuale (o pensi che “schiacciate l’infame!” sia un messaggio su
cui lo ‘spregevole’ piccolo-borghese medio è davvero indotto a
riflettere? E poi se quello è spregevole, perché poi vorresti che ti
desse ragione?) che, piuttosto che comunicazione, è moralismo e
pregiudizio nei confronti della persona altrui anziché lotta
comunicativa che contrasti l’azione altrui. Chi è “l’infame”? Questa
parola non descrive nessuna azione da combattere, ma semplicemente
insulta chiunque non ci vada a genio. L’infame sta solo nei quattro
luoghi che vengono menzionati (dietro la cattedra, in Parlamento, in
Vaticano, a villa Mirafiori) o ce ce sono anche al di qua della
cattedra, e tra “noi antiliberalii e comunisti”, e magari se ne trova
una parte in ognuno di noi? Oppure tra “noi”, o se preferisci, tra
“voi” si è tutti santi o c’è qualcuno che è tutto santo? Cosa facciamo,
una Chiesa al contrario? In ogni caso, dove sta la “battaglia
filosofica” quando si insulta l’altro? Sinceramente, trovo in tutto
questo un legittimo diritto di espressione e quindi una perfetta
manifestazione di quell’ideologia borghese che vede la comunicazione
come libertà di parola per tutti, ma nulla che abbia a che fare con il
comunismo e la sua costruzione.
Domanda stupida (ogni tanto servono pure): meglio Marx o meglio Nietzsche?
Non
me la sento di scegliere. Nella mia formazione sono stati entrambi
fondamentali (su Nietsche, come tu sai, ho scritto anche un
librettino): Marx per la capacità di leggere le dinamiche strutturali
delle società e di riconoscere la la loro importanza; Nietzsche per la
messa a fuoco dei rapporti tra sapere e potere e per il modo di vedere
le cose nella loro relazione complessa. Tuttavia, lasciamelo dire,
quello che, a mio parere, consente di mettere in pratica, con
attenzione alle sfumature della concretezza, anche ciò che di bello e
rivoluzionario Marx e Nietzsche hanno pensato, è il maestro del
pensiero e della pratica della nonviolenza: Mohandas Karamchand Gandhi.
Per
terminare, se un lettore di questo giornale volesse avvicinarsi alla
nonviolenza, che letture gli consiglieresti? Ovviamente escludendo il
tuo volume (che invece consiglio vivamente io) e la raccolta di
estratti di Gandhi a cura di Pontara, Teoria e pratica della
non-violenza (che è, credo, il testo base da cui partire).
Dipende
da qual è il punto di partenza del lettore: se è un cristiano (o uno
spirito religioso in generale), gli consiglierei di partire da Aldo
Capitini, Il potere di tutti; se è un marxista, da J. Galtung, Gandhi
oggi; se è uno che si occupa di sociologia, A. Labate, Per un futuro
senza guerre, Liguori 2008, e così di seguito.
Simenza