Dal 7 al 19 dicembre scorsi si è svolta a Copenaghen la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima. In quell’occasione in rappresentanza di 192 Paesi si sono incontrati circa 20.000 delegati per cercare di potenziare il protocollo di Kyoto, in ordine di salvaguardare il pianeta dai cambiamenti climatici dovuti al super-sfruttamento delle risorse energetiche.
Come si sa non è stato possibile ratificare nessun accordo che prevedesse una graduale diminuzione delle emissioni di CO2 e un investimento nelle energie pulite, in quanto la rigidità dei paesi più industrializzati a rivedere i propri standard di consumo si è scontrata con l’indisponibilità dei paesi più poveri a sacrificare le loro prospettive di crescita.
Le belle speranze che molti nutrivano si sono scontrate con la realtà del divario di fondo tra primo e terzo mondo e il vertice si è chiuso con un nulla di fatto.
Il risultato sostanziale sembra essere solo una proroga dei termini del protocollo Kyoto per i Paesi che lo firmarono e un’adesione formale per gli altri (USA, Cina, India e Brasile in testa).
L’obiettivo rimane quindi mantenere entro 2 gradi l’aumento della temperatura globale nei prossimi decenni. Perchè ciò sia possibile, secondo le stime degli scienziati incaricati dell’ONU, sarebbe necessario un taglio delle emissioni mondiali di CO2 del 50% entro il 2050, con un peso relativo dell’80% sui Paesi industrializzati che dovrebbero impegnarsi ad una riduzione del 25-40% già entro il 2020.
È interessante esaminare “come” questi burocrati pensano di operare un tale taglio di emissioni. Non certo responsabilizzando verso il patrimonio comune dell’umanità i sistemi produttivi dei vari paesi, e neanche immaginando regimi di consumo più sostenibili. Essi si affidano al mercato, ancora e sempre il mercato, attraverso un meccanismo che si chiama Cap and trade.
Ora che i governi di tutto il mondo si stanno rendendo conto che esiste un effettivo problema di inquinamento, si cerca di trovare il modo di, per lo meno, arginare il danno e allo stesso tempo di non inficiare i loro standard qualitativi di vita e il loro tasso di crescita economico. il Cap and trade è un sistema che crea un mercato per le emissioni di CO2 da carbon-fossile nel momento in cui la maggior parte dell’economia mondiale su sostiene sul carbon-fossile,
Il primo passo consiste nell’accettazione da parte dei governi di imporre un tetto annuale massimo per le emissioni di CO2, un “cap”, che vada diminuendo gradualmente nei prossimi decenni in modo da abbassare le emissioni fino ad una soglia sostenibile. Il quantitativo annuo di emissioni viene poi diviso in quote di emissioni cedibili e comprabili come qualsiasi altra merce. Ogni paese quindi le distribuisce alle industrie come permessi ad inquinare, creando un vero e proprio mercato del pattume.
Questo sistema spingere le industrie a convertire il loro ciclo produttivo rendendolo più efficiente e meno inquinante, cosicché possano vendere parte o la totalità delle loro quote annuali di permessi alle industrie meno virtuose.
Fare soldi e salvare il pianeta, le due cose possono veramente andare insieme?
Gli operatori finanziari che gestiranno questo traffico e che faranno montagne di soldi in commissioni finanziarie sono gli stessi che hanno inventato il sistema, tra di loro ci sono anche persone che provengono dalla Enron o dalla Goldman Sachs. C’è bisogno di ricordare il ruolo che hanno ricoperto questi gruppi nelle crisi finanziarie di questi ultimi anni?
Il sistema funziona solo nel senso che crea soldi dal nulla e non certo perché sia ecologicamente efficace.
Ma qui non si vuole prendere una posizione ideologica. Questo generi di accordi non possono funzionare per dei motivi oggettivi. Primo, questi permessi vengono inizialmente ceduti per la maggior parte gratuitamente agli industriali, il che equivale a regalare soldi, e quindi a premiare, chi fino a ieri ha contribuito ad inquinare il mondo. Secondo, sono previsti dei permessi di compensazione: i permessi di compensazione vengono creati quando una società apparentemente rimuove o riduce le proprie emissioni, ottenendo un permesso che può essere venduto ad un’altra società che voglia emettere più CO2. In teoria, uno compensa l’attività dell’altro. Ma in realtà è molto difficile assicurarsi che vi sia una riduzione di emissioni reale a fronte della creazione del permesso, ed è quindi molto probabile che quando ne avrà l’occasione l’industriale barerà vendendo permessi che non hanno dietro una reale diminuzione di emissioni. È del tutto legittimo aspettarsi quindi che le quote di CO2 emesse in più dai compratori di questi permessi finiscano per far superare i limiti previsti dall’accordo riguardo il tetto massimo di emissioni annue.
Il risultato ultimo è appunto che non solo non si ottiene un abbassamento delle emissioni, ma si permette altresì a chi inquina di arricchirsi col mercato del pattume.
Per cercare di capire quale possa essere una strada alternativa alla ragione di mercato per la questione ecologica, abbiamo intervistato Paolo Cacciari, promotore della decrescita che da anni si occupa di queste tematiche cercando di sensibilizzare le persone al rispetto dell’ambiente.
Perché secondo lei il meccanismo del cap and trade non costituisce uno strumento efficacie per abbattere realmente gli inquinamenti?
L’economia di mercato e il regime giuridico che la sostiene contemplano solo un modo di regolazione dell’uso delle risorse naturali, dei doni della Terra: quello che passa attraverso la loro proprietarizzazione. Cioè, mutare il loro status da “res comunes omnium” a beni disponibili dei privati o dello stato. Il capitalismo nella sua travolgente avanzata, onnivora e omogenizzante, non ammette “beni comuni” non disponibili e inalienabili, usufruibili sempre e da tutti, generazioni future comprese. Così si sono persi nel tempo gli usi civici, variamente organizzati come nelle antiche regole cadorine o nelle mille altre modalità di fruizione che si sono consolidate a seconda degli usi consuetudinari delle varie comunità locali. Sotto la spinta dell’uso intensivo del suolo si è consumata la “tragedia dei commons” (dei fondi agricoli a disposizione di chiunque, ma auto-normati dalla comunità) che è esattamente il contrario di quanto ci hanno raccontato gli economisti per tre secoli; l’origine della tragedia della riduzione alla miseria dei contadini all’inizio dell’era industriale è stata in verità determianta dalla creazione delle enclosures, a beneficio di una agricoltura e di una zootecnia intensive, rivolte ad alimentare le città.
Così, i meccanismi cap and trade significano esattamente continuare su quella originaria strada: dopo i pascoli i boschi, dopo i boschi le foreste, dopo i mari (permessi di pesca ceduti e venduti) i fiumi (derivazioni per dighe idroelettriche e centrali), dopo l’acqua potabile (imbottigliata, depurata, commercializzata) le riserve biogenetiche (brevettate per usi farmaceutici ed alimentari), dopo il genoma umano ora tocca all’atmosfera. Appena un bene naturale diventa “scarso”, perché depredato e non più immediatamente disponibile, interviene la scienza economica (che si autoprofessa la maga della “ottimizzazione nella allocazione delle risorse”) che spiega alla politica (che a sua volta si autoprofessa la maga della distribuzione più equa del benessere e della felicità) come fare a mettere a frutto anche il cielo. Basta prezzarlo e inventarsi un mercato fittizio.
Come spiega bene Vandana Shiva (Ritorno alla terra. La fine dell’ecoimperialismo, Fazi, 2009) il Protocollo di Kyoto è il più grande tentativo mai architettato di integrazione pianificata dell’ambiente nell’economia di mercato. Tecnicamente si fonda sull’attribuzione per legge di un diritto di inquinamento ad un gruppo di imprese preselezionate e sull’autorizzazione al commercio dei relativi permessi, “crediti”. Come direbbe Giorgio Nebbia, il tentativo è quello di far entrare “l’economia della natura” dentro “l’economia dei soldi”. Si tratta di una operazione non solo arbitraria, ma anche inefficace, controproducente. Per due ragioni, essenzialmente. Primo perché è semplicemente impossibile misurare in dollari i servizi ambientali resi dalla natura. Si tratta di valori incommensurabili. Basterebbe tornare alle splendide pagine di Aldo Leopold (scritte sessant’anni fa, Almanacco di un mondo semplice, Como, 1997): “La debolezza di base di un sistema dell’ambiente che si basa interamente su motivazioni di natura economica è costituita dal fatto che la maggior parte dei membri della comunità terrestre non ha valore economico. I fiori selvatici e i passeracei ne sono un esempio. Dei ventiduemila tipi superiori di piante e animali nativi del Wisconsin, forse non più del 5% può essere venduto, nutrito, mangiato o sfruttato economicamente in qualche modo. Eppure queste creature sono membri della comunità biotica e se, come credo, la stabilità di questa dipende dalla sua stessa integrità, essi hanno ogni diritto di continuare a esistere”. Bello, no? Da vent’anni l’economia ecologica di Martinez Aliez (Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Jaca Book, 2009) ci spiega l’incommensurabilità dei valori messi in campo dagli attori dei conflitti ambientali: coloro che vogliono sfruttare economicamente le risorse, da una parte, e coloro che vogliono preservare un ambiente di qualità, dal’altro. I prezzi dei beni e dei servizi ambientali, quindi, dipendono dai conflitti ambientali che si sviluppano tra i due soggetti, non da un astratto “giusto prezzo” che dovrebbe scaturire da un mercato fittizio.
La seconda ragione del fallimento dell’ambientalismo di stato e dei consigli di amministrazione è che la missione costitutiva delle imprese di capitale è far aumentare i business, non diminuire l’utilizzazione dei flussi di materiali e di energia. Dare le chiavi di casa al ladro non è una buona strategia.
Quali limiti ha mostrato secondo lei il fallimento della del vertice di Copenhagen?
La crisi finanziaria ha messo a nudo la decadenza della potenza statunitense. Molti dicono che siamo ad un passaggio storico; presto (nel 2025) la Cina supererà le capacità produttive degli Stati Uniti. Le regole del gioco geopolitico se le stanno stabilendo loro due. Il surriscaldamento globale rientra in questo gioco perché parla direttamente di energia (come va spartito il petrolio, il gas e l’uranio che rimane) e di tecnologie (come e quanto vanno pagati i brevetti). Mi pare che le due superpotenze non si siano ancora messe d’accordo, non è detto che gli interessi dei due coincidano, vi è anche competizione: Obama deve accompagnare il declino il più morbidamente possibile, la Cina deve tenere a freno gli spiriti animali che ha liberato nella corsa all’industrializzazione. Gli altri stati sono al rimorchio, degli uni o degli altri. Bolivia ed Equador sono ancora solo due piccole fiammelle. Il limite dei movimenti è ancora quello di rivolgersi alla buona volontà dei governi. Probabilmente le politiche giuste passano fuori dai summit.
Che cos`é la decrescita? c`é chi va dicendo che sia la proposta di tornare indietro di un paio di rivoluzioni industriali, e qualcun altro convinto che sia un´etica della privazione. Puó aiutare a far chiarezza?
Mi rendo conto che l’idea di una società della decrescita, seppur variamente qualificata (volontaria, scelta, sostenibile, serena, felice…) può ingenerare equivoci (confondendola magari in buona fede con la recessione), può suonare persino offensiva, una maledizione per chi non ha di che mangiare o blasfema per chi è convinto che non vi sia altra via possibile al progresso umano se non la crescita esponenziale delle capacità produttive industriali. Va quindi precisato cosa si intende decrescere, chi è chiamato a farlo e, soprattutto, come va fatto. Sul cosa diminuire ormai non ci sono obiezioni (salvo qualche negazionista prezzolato e – in Europa – i governi italiano e polacco): dobbiamo ridurre il flusso di materiali e di energie impiegati nei processi produttivi. Cioè, serve rientrare nella sostenibilità fisica (carring capacity) della biosfera; rispettare i tempi e i cicli di rigenerazione delle risorse naturali; conservare e possibilmente migliorare le condizioni ambientali di cui anche la nostra specie è parte. Lo dobbiamo fare volenti o nolenti, per necessità: abbiamo dato corso ad una “catastrofe lenta” (la sesta estinzione di massa, ha detto qualche scienziato, dopo quella dei dinosauri avvenuta 65 milioni di anni fa, ma questa volta per mano nostra: la specie umana è diventata una forza geofisica) che sta provocando un “genocidio silenzioso” (gli affamati e gli assetati, i profughi ambientali, l’inurbamento dei disperati, la deruralizzazione, le guerre per le risorse). Quindi, dobbiamo trovare un nuovo equilibrio (se parlare di armonia ci pare un obiettivo esageratamente ambizioso) tra prelievi e scarichi, nel metabolismo sociale.
Anche alla seconda domanda (chi deve avviarsi sulla strada della decrescita) la risposta è semplice: tutti, essendo il rischio di catastrofe un problema planetario e transnazionale, ma – ovviamente- seguendo un principio di giustizia e proporzionalità: chi consuma e inquina di più deve fare di più e prima. Pensiamo solo alle disparità gigantesche che ci sono nelle emissioni procapite di gas climalteranti o nel prelievo e consumo di materie prime e combustibili o nella produzione di rifiuti. Giustizia energetica, giustizia ambientale, debito ecologico… sono termini entrati ormai nell’uso comune.
E’ sulla risposta da dare alla terza domanda che le cose si fanno difficili: con quali politiche riconvertire l’economia in una direzione di sostenibilità ambientale e di maggiore giustizia sociale? La risposta dei capi di governo e delle multinazionali è semplice e chiara: attraverso nuove tecnologie ecoefficienti. Inutile dire che per finanziare queste innovazioni miracolose, che ci dovrebbero portare al “capitalismo naturale” (e persino “al capitalismo dal volto umano”, come auspica Becattini e gli economisti cattolici) servono più mercato, più profitti, più accumulazione, più capitali, più merci da comprare e da vendere. Così succede che il cane si morde la coda ed invece che “smaterializzarsi” l’economia guidata dalle regole del capitalismo aumenta il consumo netto di materiali, aggrava tutti gli indicatori materiali (non monetari) del metabolismo sociale. Ad esempio in Europa tra il 1980 e il 2.000 le tonnellate procapite di minerali, combustibili, biomasse, ecc. è aumentato del 10%. Senza tener conto che molte delle nostre “spese” le facciamo in Cina!
Ciò che auspichiamo invece noi, fautori della decrescita, è una diminuzione della dipendenza dal mercato. Pensiamo che sia non solo necessario, ma persino più soddisfacente (da un punto di vita materiale e psicologico), imparare a rispondere ai propri bisogni e ai propri desideri senza passare per il supermercato. Oggi ci dicono e ci costringono ad avere sempre di più per riuscire a stare meglio. Il possesso di beni è l’unica via che ci è indicata per raggiungere un grado di sicurezza sociale e psicologica. Ma possono esserci altre strade, meno distruttive e altrimenti ricche di soddisfazioni: ad esempio il saper fare cose utili, aumentare le relazioni umane e i rapporti sociali, dedicare più tempo a sé stessi, a pensare e a contemplare il creato… Ma anche sviluppare conoscenze e abilità capaci di far star meglio tutti e tutte, generazioni presenti e future. Decrescita non significa rifiutare la ricerca scientifica e la tecnologia, ma liberarla dal condizionamento dell’imperativo produttivo, cioè rifinalizzare la potenza inaudita della tecnoscenza all’obbiettivo di lavorare e consumare di meno. Vivere meglio con meno: questa è la sfida. La decrescita evoca un intero modo di vivere senza coercizioni (produrre per produrre, accumulare per prevalere, competere per sottomettere e dominare), inserito in un sistema di relazioni sociali conviviali, autonome, sobrie. La decrescita, quindi, è un modo per indicare una via verso un’economia della condivisione, della sufficienza, della presa in cura di tutti gli esseri viventi, umani e non. “La decrescita – ha scritto André Gorz, Crisi mondiale, decrescita e uscita dal capitalismo, Jaca Book, 2009 – è una buona idea: essa indica la direzione nella quale bisogna andare e invita a immaginare come vivere meglio consumando e lavorando di meno”.
Se vi pare ancora un concetto troppo vago e astratto, allora possiamo ripartire dal basso: pensate ai gruppi di acquisto solidali, alle banche del tempo, ai distretti e alle reti di economia solidale e di commercio equo, ai sistemi open source, ai cicli corti e al biologico in agricoltura, alle monete locali complementari…
Qual`é il soggetto politico che possa far prevalere le ragioni di Madre Natura sullo strapotere del denaro? e quale pensa debbano essere le sue modalitá di lotta?
Non penso ad “un” soggetto predestinato o predisposto a rivoluzionare il mondo per via di una sua qualche particolare collocazione sociale, ma a un movimento di moltitudini di uomini e donne che acquistano coscienza di sé, che si auto-riconoscono e si auto-organizzano autonomamente. Si “sfilano”, si dissociano, obiettano, tolgono delega… si rendono liberi e indipendentei – ovviamente, nel limite del possibile – dalle coercizioni prima di tutto culturali che ci vengono dal mondo esterno. Penso al lavoro di Paul Hawken , (Benedetta irrequietezza, Edizioni Ambiente, 2009) che cataloga milioni di gruppi e di associazioni di cittadinanza attiva impegnati nella difesa dell’ambiente e della giustizia sociale: “ Un movimento senza nome che sfugge a qualsiasi definizione e che lotta per dissolvere le concentrazioni dei poteri. Agisce per testimonianze, informazione, azioni di massa”. Raul Zibechi (Territori in movimento in America latina. Fuori dal capitale, in “Carta”, n.46 2009) parla di una “primavera dei popoli”, di movimenti e sommosse in cinquanta paesi diversi nel corso dell’anno passato: movimenti indigeni, periferie urbane, Abahlai-base-mjondolo (quelli che vivono nelle baracche, in lingua zulu), movimenti contadini. Non è vero che viviamo in un modo pacificato, solo perché stampa e televisioni liquidano i conflitti ambientali (cioè le lotte per la equa distribuzione delle condizioni del vivere umano) come manifestazioni di arretratezze culturali o egoismi localistici, indigeni come panda e panda come se fossero sostituibili dalla peluche.
Dovendo darsi delle prioritá, quali sono per lei le emergenze immediate per la salute del pianeta e quali invece le problematiche da afforntare a lungo termine?
Non sono uno scienziato, ma penso che negli ultimi anni si sia molto enfatizzato l’effetto serra a discapito di altre emergenze (penso alla alterazione del ciclo dell’acqua che la rende meno disponibile ad usi alimentari, igienici e in agricoltura, penso all’inquinamento degli oceani, alle polveri sottili inalabili nei grandi centri urbani…) solo perché il grande capitale ha capito che doveva trovare consenso per spostare ingenti risorse economiche pubbliche e private nello svecchiamento degli apparati energetici.
Lei ha recentemente scritto che <sul clima si gioca una partita geopolitica> per il mezzo dell´introduzione di nuove tecnologie atte a <mantenere alto il differenziale competitivo tra le economie piú sviluppate e il resto dl mondo>. Puó spiegare cosa intende con degli esempi concreti?
L’ho già detto: ho l’impressione che la green e la soft economy, la clean tech, il “new deal verde”, la “rivoluzione verde” – che ultimamentre hanno folgorato capi di stato e giornalisti alla moda – siano usate dai big players in modo del tutto strumentale, come pretesto per scoprire nuovi prodotti, nuovi mercati, nuove tecnologie per mantenere alto il differenziale competitivo tra le economie occidentali (Usa e suoi alleati) contro le economie dei “paesi emergenti”. Il loro obiettivo è “fare business con l’ambiente”, che è cosa molto differente dall’obiettivo di far rientrare le attività umane dentro margini di sicurezza e sostenibilità ambientale, di ridurre l’”impronta ecologica”, di aumentare la produttività primaria degli ecosistemi terrestri.
Vale forse la pena continuare a ricordare cosa scrivevano le agenzie dell’Onu a proposito delle nostre responsabilità in merito alla protezione dell’ambiente: “Sviluppo sostenibile è un processo nel quale l’uso delle risorse, la dimensione degli investimenti, la traiettoria del progresso tecnologico e i cambiamenti istituzionali concorrono tutti assieme ad accrescere la possibilità di rispondere ai bisogni della umanità non solo oggi, ma anche in futuro” (Nostro comune futuro, Onu 1987).
Scienza, economia, tecnologia, politica al servizio di un disegno etico universalista e progressista.
Siamo proprio sicuri che i piani di “stimolo” dell’industria che i governi stanno varando in ogni parte del mondo vadano in questa direzione? Siano mossi da questa disinteressata filosofia?
In realtà stabilire migliori standard prestazionali ambientali (minore impiego di materie prime a cominciare dai combustibili fossili, minori emissioni di inquinanti) mira semplicemente a risparmiare sui fattori produttivi per mantenere una supremazia tecnologica nella competizione globale, generare più valore aggiunto, più profitti, più masse salariali da spendere sui mercati di consumo. Insomma rigenerare il capitalismo. Già si sa che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto dei fondi di investimento “verdi”: acqua, biocarburanti, energie rinnovabili in genere. Come sempre, è straordinaria la capacità del capitalismo di sussumere anche le istanze antagoniste, di finanziarizzare lavoro e natura.
Ma si tratta dell’ennesima chimera, della nuova grande illusione dispensata via etere per tentare di dare l’impressione che la situazione sia dopotutto sotto controllo.
In realtà la crisi ambientale (così come le altre) è figlia diretta della logica sistemica, del modello portante dell’economia dello sviluppo, cioè della legge dell’accumulazione incrementale, della crescita esponenziale del denaro in circolazione.
La decrescita parte dalla constatazione che le risorse del pianeta sono insufficienti a supportare ulteriormente il nostro attuale sistema di produzione e consumo. cosa risponde a coloro che in risposta a ció, per giustificare ulteriormente il modello di sviluppo capitalistico, propugnano la cosí detta soft-economy?
Mi pare di avere già risposto. Bisogna tornare agli insegnamenti dell’economia ecologica: per ogni ritrovato della tecnica c’è un margine di incertezza e si possono generare effetti indesiderati, imprevisti e controproducenti (“trappola tecnologica”). Molto spesso – ad esempio- le tecniche di depurazione altro non sono che spostamenti su diverse matrici ambientali e diluizioni. Per ogni effettivo miglioramento delle prestazioni e dell’efficienza di macchine e processi produttivi si produce un “effetto rimbalzo” conseguente alla maggiore economicità e quindi alla maggiore utilizzazione dei nuovi prodotti, così il risultato complessivo è un aumento, non una diminuzione, degli impatti. Se la Fiat installa una marmitta catalitica più efficiente sui suoi modelli, ma se contemporaneamente negli stabilimenti Tata in India produce un milione di nuove autovetture l’anno, i benefici per l’atmosfera saranno davvero pochi!
Torno a citare Martinez Aliez: “Con l’aumento di scala dell’economia si producono più rifiuti, si danneggiano sistemi naturali, si erodono i diritti delle generazioni future, si perdono i saperi sulle risorse genetiche, alcuni gruppi di popolazioni sono privati dell’accesso a risorse e servizi ambientali e soffrono una quantità sproporzionata di inquinamento”.
Una domanda di politica interna: come giudica il ritorno al nucleare paventato dalla destra per sopperire alla dipendenza energetica dell’Italia?
Mi pare che il nucleare in Italia sia usato dal governo delle destre come una clava ideologica, per sancire l’avvenuta completa restaurazione e la cancellazione dei movimenti “antisistemici”. A leggere cosa dicono e scrivono i miei amici più esperti (Mario Agostinelli, Gianni Mattioli, Marco Bersani…) l’unico effetto dei poderosi investimenti pubblici necessari per riattivare una o due centrali in Italia è quello di accontentare una piccola lobby di scienziati e di imprese. Pagheremo poi noi nella bolletta della luce, come sta ancora avvenendo con gli inceneritori.
Lei ha detto “serve una nuova economia che supporti sia una rivoluzione verde sia una rivoluzione sociale”. Anche all´interno del dibattito anarchico si tenta di congiungere in una stessa prospettiva teorica la lotta contro lo sfruttamento dell´uomo sull´uomo da una parte, e lo sfruttamento dell´uomo sulla natura dall´altra. condivide anche lei con l´anarchismo la necessitá di superare prima o poi gli istituti della proprietá privata e dello stato?
Penso che – almeno dal punto di vista dell’elaborazione teorica – non siamo distanti dall’avere finalmente una narrazione plausibile e convincente sul post-capitalismo. Penso al discorso sui beni comuni (portato avanti da Riccardo Petrella, dalla Giovanna Ricoveri e da tanti altri). Poniamoci e poniamo la domanda: di chi è il cielo? Delle imprese che lo usano come discarica? Degli stati nazionali che operano dentro confini amministrativi ridicoli se rapportati alla scala della biosfera? Dei G2, G8, G22… o dello stesso Onu che (come abbiamo visto a Copenhagen) non è in grado di far rispettare nemmeno le proprie convenzioni e protocolli?
Dobbiamo cominciare a dire che il cielo è di tutti, ma proprio di tutti: animali e piante compresi. E come il cielo, l’acqua; e come l’acqua, i semi, il suolo, i mari, il paesaggio… E non fermarci ai doni della natura, ma anche a quelli culturali che abbiamo ereditato dalla lunga sedimentazione di esperienze, ricerche, studi… avvenuta nel corso della storia umana. Dobbiamo liberare i beni comuni materiali e i beni comuni culturali dalle sgrinfie della proprietà, privata e statale – che è poi la stessa cosa se pensiamo che il potere coercitivo dello stato altro non è funzionale se non a garantire la proprietà privata dei mezzi di produzione e della terra. Dobbiamo riscoprire la natura cooperativa e collettiva dei processi creativi sociali che si realizzano in comunità aperte, memori, solidali. Fuori dall’impresa capitalistica, quindi. Fuori dai rapporti sociali di produzione subordinati, alienati, gerarchizzati. Marx , nel III Libro del Capitale arriva a scrivere: “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna (cioè: il lavoro umano catturato e alienato nelle strutture dell’economia); si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria”. Siamo qui non solo all’estinzione dello stato, ma anche del lavoro salariato!
Alla luce della crisi ambientale, alla luce del fallimento delle promesse di opulenza del capitalismo, alla luce delle ingiustizie e delle esclusioni subite dalla grande maggioranza della popolazione della terra dobbiamo rimettere in discussione diritti di proprietà, strutture di potere, istituzioni politiche. Dobbiamo deglobalizzare e demercificare. Non solo smaterializzare.
Si tratta ora, politicamente, di mettere in pratica forme e modalità di vita in comune. Un’economia che risponda a principi etici. Gandhi sognava un uomo “austericamente anarchico” e pensava che “lo stato, nel passaggio alla società senza stato, sarà una federazione di comunità democratiche rurali nonviolente e decentralizzato. Queste comunità si baseranno sulla semplicità, povertà e lentezza volontaria, cioè su un tempo di vita coscientemente rallentato, nel quale l’accento sarà posto sull’autoespressione, attraverso un più ampio ritmo di vita, piuttosto che attraverso più veloci pulsioni nell’avidità e di lucro” (in Giovanni Salio, Elementi di economia nonviolenta, “Quaderni di Azione nonviolenta”, 2001).