Val di Susa: fenomenologia di uno stato canaglia

All’inizio si trattava solo di un gruppo di valligiani non meglio identificati, certamente italiani, troppo italiani. Erano quelli del nimby, “not in my back yard”, quelli che, a detta anche della cosiddetta sinistra di governo, erano i tipici italiani che rifiutano la modernizzazione, solo perché richiede sacrifici.

Poi sono diventati teppisti, estremisti oppure solo cittadini onesti manipolati da violenti nell’orbita di qualche centro sociale. Si è imposta la più classica logica dualistica, buoni e cattivi, con la necessità da parte dei primi di dissociarsi dai secondi. Sono fioccati gli arresti ordinati da una delle punte di diamante della cosiddetta magistratura democratica di questo paese e loro hanno detto “siamo tutti black block” non cogliendo l’opportunità di redenzione che gli veniva offerta. Si sono mostrati compatti nel resistere all’attacco della magistratura, parte del fin troppo evidente progetto di disarticolazione del movimento ed hanno mostrato quanto questo apparato di potere che contro di loro si è scagliato, oltre alla violenza, avesse poco più che una arrogante ciarlataneria.

Adesso qualcosa di nuovo è successo e non si può dire che fosse totalmente inaspettato. Le requisizioni sono andate avanti nonostante l’assenza totale di un progetto, perché la speculazione è troppo interessata a lucrare con i fondi europei anche su questa impasse. A questa violenza i No Tav hanno resistito con durezza ed anche mettendo a rischio la propria stessa incolumità. Luca Abbà che si arrampica sul traliccio lo fa per questo, perché di fronte alla spaventosa asimmetria delle forze in campo non resta che dare corpo ad una resistenza estrema. Strano in effetti per degli italioti interessati a difendere il loro orticello un comportamento del genere. Decisamente difficile a questo punto fare dei No Tav uno dei tanti colpi di coda corporativi di un paese incapace di pensare in termini di bene comune. Si direbbe al contrario che sia proprio la salvaguardia del bene comune quella a cui essi tengono e che questo bene comune non sia altro che la loro valle. E’ su questa base che il movimento ha saputo dialogare con altre realtà nazionali ed uscire dagli angusti steccati di una lotta locale.

Ora si dice “qualcosa è accaduto”, ma la realtà è che non si vuole vedere la violenza che su questa comunità si è abbattuta: risulta strano capire un gesto estremo e con esso tanti altri che raccontano una realtà di guerra, combattuta ma non voluta. E’ l’ultimo atto della demonizzazione quello che si prepara, quello che intende fare della Val di Susa uno stato canaglia ovvero una gigantesca operazione di ordine pubblico, che trova i suoi precedenti tanto nelle missioni militari cosiddette di pace quanto nella reazione dello stato seguita agli anni di piombo. Due cose ho infatti sentito dire in queste ore e sono gravi.. Molto.

La prima è che proprio in quella stessa valle il terrorismo ha avuto una delle sue culle (“non sono forse venuti dalla Val di Susa esponenti di Prima Linea?”) e la seconda è che l’immagine di un manifestante, che semplicemente ricorda ad un poliziotto che la sua obbedienza (per cui in seguito riceverà un encomio solenne) è pura stupidità e connivenza, sarebbe un punto di svolta nella rappresentazione di questo conflitto, una di quelle immagini che fanno dire alla platea mediatica “questo è troppo! Facciamola finita con costoro!”, così come è accaduto per Sarajevo ed il Kosovo (Mentana docet). Anche in quei casi infatti non si fece altro che strumentalizzare un’ondata emotiva, utile solo a dare consenso ad una guerra già decisa per affermare precisi interessi strategici. Non si può forse sospettare che proprio questo la gran cassa dell’informazione si appresti a proporre per la Val di Susa? Temo proprio di sì, ma per il momento a tutto ciò non si può che opporre l’onestà di una lotta.

RB