La lista dei ministri che hanno provato a smantellare o dequalificare l’istruzione pubblica è lunga. Forse il processo di cui la Gelmini è solo un esito inizia nel 1990 con Ruberti (contro cui nacque il movimento della Pantera) e passa per Berlinguer, Moratti e la coppia Mussi- Fioroni. Una delle linee- guida delle riforme è sempre stata la volontà di trasformare l’università in un laboratorio formativo di lavoratori utili al mercato, con l’esito distruttivo di una sempre maggiore dequalificazione del sapere. Oggi è l’ora del nuovo governo Berlusconi: il decreto 112/2008 convertito in legge il 6 agosto scorso (legge 133) prevede una drastica riduzione dei finanziamenti all’istruzione pubblica, dalle scuole elementari fino all’università, senza risparmiare la già tanto maltrattata ricerca. Dato l’enormità della crisi economica di un sistema economico e finanziario sull’orlo della recessione, questa volta i tagli sono stratosferici, mostrando a chiare lettere il vero intento politico: lo smantellamento sostanziale del “pubblico” in questi settori. Tagli complessivi superiori ai 10 miliardi di euro in cinque anni, riduzione drastica del personale tramite turnover all’università ed il ripristino del maestro unico nell’istruzione elementare (ma la riduzione comprende anche il personale Ata), invito caloroso alle facoltà a trasformarsi in enti privati: un attacco sistematico al funzionamento stesso del sistema. Che questo sia solo un tassello verso lo smantellamento del “pubblico” in tutte le sue forme è mostrato da provvedimenti paralleli: ad esempio, la gestione privatizzata degli acquedotti. Solo per un’analisi superficiale questi fenomeni non sono connessi. Non dimentichiamo però, che, oltre i decreti 133 e 137, l’università italiana soffre di un malattia enorme e “antica”: il baronaggio. È questo vizietto, fra l’altro, che inceppa la macchina universitaria. Proprio il baronaggio rende talvolta i docenti di ruolo dei falsi alleati di questo movimento. Infatti, proprio per il potere che traggono dai rapporti baronali, essi hanno interesse a conservare parte dell’attuale funzionamento dell’università. Il baronaggio fa sì che il sistema universitario continui a riprodursi attraverso un meccanismo quantomeno contraddittorio. Il reclutamento dei sottoposti di un barone avviene, formalmente, per concorso pubblico, realmente per cooptazione “privata”. I “cooptati” sono sottoposti a forme di lavoro che nominare precarie è poco. La cooptazione inizia con scambi di favore tra baroni e aspiranti sottoposti: i secondi accettano di essere oberati dagli incarichi istituzionali e professionali dei loro cooptatori. Il premio? Un contratto precario in cui non è previsto tutto il carico di lavoro: correzioni di bozze, lavori a firma del barone, lezioni, ricevimenti ed esami al suo posto. Con la speranza che si liberi un posto. La precarietà è oggi il primo passo verso i privilegi accademici. La cooptazione, inoltre, impedisce la libertà di ricerca e, spesso, qualsiasi forma di pensiero critico. Essa rappresenta, nella fabbrica universitaria, i rapporti di produzione, ovvero di subordinazione tramite la costrizione del lavoro di ricercatori ridotti a “lavoratori del sapere”. Un barone lo si riconosce subito: basta guardare la coda di sottoposti che trascina dietro. L’ opposizione delle forze politiche parlamentari ed ex- parlamentari è stata, all’inizio, ai limiti del ridicolo in quanto a incisività (forse in linea con gli sfaceli di Fioroni- Mussi). Ha raggiunto l’indecenza, invece, con la proposta referendaria anti- Gelmini. Solo da partiti incancreniti nella stagnazione politica che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni potevano proporre un simile sbocco al movimento. Solo dal PD di Veltroni poteva venire questa proposta, solo il PRC di Ferrero poteva accodarsi. Il referendum è la ricetta proposta dall’opposizione istituzionale per evitare che l’ Onda cresca troppo; è il sintomo della profonda paura di una casta politica incapace. La loro ricetta non cambia mai: l’esautoramento del potere autorganizzato dal basso attraverso la burla elettorale. Del resto il referendum non potrebbe essere indetto prima dell’aprile 2010.
La vera opposizione al governo sorge dal basso, in seno a quelle scuole ed a quelle facoltà universitarie il cui lento e faticoso scorrere sta per essere spazzato via dalla 133. L’esperienza del corteo del 17 ottobre è stata la prima occasione di protesta radicale messa in strada. Migliaia di studenti hanno bloccato quasi per un’intera giornata lavorativa uno dei centri dell’attuale produzione capitalistica occidentale: la metropoli. Hanno bloccato la mobilità: modus vivendi caratteristico della metropoli, modus operandi di buona parte della produzione attuale. L’ Onda è entrata in azione. L’ Onda nasce e si propaga , “allagando” città e metropoli. Gli aggettivi per descrivere cosa sia l’ Onda non mancano e si sprecano: moltitudinaria, “liquida”, irrappresentabile, eversiva; la verità è che mille percorsi politici diversi, uniti alle centinaia di migliaia di individualità per la prima volta mobilitate, si sono mosse all’unisono. Con un desiderio di vivere la politica in maniera immediata, di rovesciare i parametri rappresentativi classici, che è andato di pari passo alla sentita necessità di coordinarsi, ascoltarsi, imparare dagli altri ed radicalizzare. Tutto ciò porta ad un’ esplosione di rabbia e di gioia, ad occupazioni diffuse ed intelligenti nelle forme, a cortei a volte spontanei. Ma soprattutto porta al sistematico blocco di città e metropoli. Il riferimento è chiaramente alla autentico di liberazione senza quel senso di frattura nei confronti del vecchio?
Nel mentre che cerchiamo di rispondere a queste domande, non sviamo il nostro cammino. L’onda è al passo coi tempi, forse è anche troppo attuale (e per questo ha perso la capacità di essere “inattuale” e di immaginare nuove epoche): stiamole dentro, senza abbandonare i nostri dubbi e senza arretrare mai di un solo passo.
R.G. & Simenza