… fondata sul lavoro?

La difesa della Costituzione è uno dei luoghi comuni più logori della sinistrata sinistra italiana. In linea con l’oscurantismo tipico del nostro Paese quando si tratta di parlare del periodo post Resistenza, si sottolineano sempre i forti valori dei Principi Fondamentali, dimenticandosi come la Seconda Parte, quella che costruiva l’architettura della Repubblica, fu pensata in diretta continuazione con i regimi precedenti. Questo preambolo serve, però, soltanto a chiarire come il mio intento non sia quello di inserirmi nello stesso filone di puristi della Carta: non è delle cose negative che ruotano attorno a questo storico documento di cui vorrei parlare. Anzi, l’obiettivo è proprio quello di cercare di recuperare quei fantomatici valori, tanto per capire come gli attuali interpreti dei giochi istituzionali italiani se ne facciano eredi o traditori.

E, da ritardatario cronico come sono, vorrei iniziare con una vecchissima polemica portata avanti dal simpatico (ex) Ministro Brunetta. Ricordate? Per lui la frase “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” non significava letteralmente nulla e proponeva di sostituirla con una formula più “razionale”. L’opinione, che fece arrabbiare molti fra i più sfegatati fan della nostra Carta, trovò però riflessi anche tra analisti e storici. Si disse che il primo articolo è una sorta di mediazione fra diverse tradizioni e che il riferimento al lavoro, di grande significato retorico, ma (pare) nulla di più, era soltanto una concessione ai comunisti. Insomma, l’espressione “fondata sul lavoro” sarebbe soltanto il cappello messo dai comunisti alla Costituzione, su concessione delle altre forze che avevano fatto la Resistenza e che ora partecipavano alla Costituente.

Non mi interessa qui entrare nei dettagli più storici, quanto porre una domanda: ma perché i comunisti si accontentarono di questo “cappello”? Qual’è il significato simbolico dell’espressione “fondata sul lavoro”? Cioè, anche ammesso che fosse solo una frase vuota, ma “evocativa”, che cosa evocava esattamente di così tipicamente “comunista”?

La risposta può sembrare banale, ma non lo è. Classicamente sono due le fonti classiche di ricchezza per un Paese: il capitale ed il lavoro. Ora è evidente che stabilire che il fondamento di un Paese, il suo motore economico-sociale sia il lavoro non vuol dire assolutamente nulla, se sei un fot**** capitalista come Brunetta. L’economia gira grazie alla “libera iniziativa”, per merito di “capitali coraggiosi” che vengono investiti e creano, loro, lavoro e nuove ricchezze. Proprio queste vaccate liberal-liberiste vengono messe, anche se a livello astratto, fuori gioco dalla Costituzione. Che certo non vieta la proprietà privata (ahimè), ma rimanda ad un sistema di valori, di organizzazione sociale e politica antitetico a quello del nostro ex ministro. E non stupisce che il geniale economista abbia l’orticaria di fronte ad un’espressione tanto paradossale: “fondata sul lavoro”.

Come dire: non è il privato che fa girare le cose, ma è la collettività a creare ricchezza e benessere. Come dire che la creatività, l’inventiva, la capacità di cambiare le carte in tavola nascono nel basso mondo del lavoro e non nella testa di illuminati imprenditori e che, per esempio, la “magia” della Apple non derivi dal presunto genio di Steve Jobs, ma dalla inventiva anche un po’ auto-lesionista di lavoratori-utenti (riprendetevi il pezzo di Wu Ming 1 sull’argomento).

E forse, quelle righe tanto difficili da capire, “ una Repubblica fondata sul lavoro”, ci parlano del rispetto dovuto ad un mondo che solo può portare una società in crisi fuori dal tunnel in cui è entrata. Perché, magari, solo una società che è in grado di consumare ciò che produce – dove, dunque, c’è un benessere diffuso corrispondente alla capacità produttiva – può ambire ad essere un posto dignitoso dove vivere.

E, forse, quel richiamo costituzionale al lavoro contiene anche qualcosa di più di tutto questo. Immaginando uno sviluppo della Repubblica ben diverso da quello che poi c’è stato, Togliatti (ma anche la vecchia DC) probabilmente voleva riconoscere l’importanza delle associazioni dei lavoratori, in ultimo l’importanza della società civile di contro alla politica istituzionale. Un richiamo che noi possiamo intendere nel 2012 anche verso un’idea di comune, di organizzazione e di economia “orizzontale” e non gerarchica – quindi anche oltre certi limiti tipici del comunismo togliattiano.

L’Italia che conta, allora, non è quella delle Banche, dei Marchionne, della Tav, della Confindustria. Il primo articolo della Costituzione parla invece del mondo del lavoro, della condivisione di questo lavoro, della cooperazione; della diffusione orizzontale di potere politico e decisionale, di lavoro auto-organizzato. E se vogliamo, ci parla anche di copyleft, ovvero della critica alla proprietà intellettuale, dell’idea distopica propria del liberalismo, che il “genio” sia qualcosa di individuale e non di collettivo e che quindi sia allergico alla condivisone orizzontale. In ultimo, se non è possibile ravvisare una critica totale al concetto di proprietà privata, ne viene però attaccato il feticcio: contro la concezione demiurgica dell’iniziativa individuale si ricorda come la ricchezza di una società dipenda dalla sua capacità cooperativa, in un senso che si fa beffe dell’idea di “coesione sociale” invocata da Napolitano. Perché si può invocare a giusto nome la coesione, solo in funzione di una critica allo sfruttamento capitalista vigente.

Sinceramente dubito che uno stato liberal-capitalista possa non tradire questo complesso sistema di valori. E, sì, in effetti quel primo articolo della Costituzione non è che un contentino dato per accontentare una base politica, quella amplissima del Partito Comunista all’indomani della Liberazione, che chiamava a gran voce la rivoluzione (che poi chissà che rivoluzione ci saremmo trovati fra i piedi con il PCI di Togliatti a guidarla). Ma dato che oggi si parla tanto di riformare il mondo del lavoro (ma anche aumentare l’IVA o la riforma delle pensioni), renderci conto che si sta tradendo lo spirito di quel primo articolo può essere un momento importante. Non fosse che per recuperare una nozione di lavoro autentica e sgombra dalla merda retorica liberal-liberista che normalmente ci viene propinata dai media come “l’oggettività delle cose”. E magari iniziare a riprendere il discorso in contesti più grandi. Perché in luogo di un’Europa delle banche, non iniziamo a pretendere un’Europa fondata sul lavoro? Pensate ai salti di gioia che farebbe Brunetta.

Simenza