Dopo la caduta dal traliccio di Luca Abbà, a cui auguro di riprendersi il più presto e meglio possibile, mi pare d’obbligo dar corpo a una riflessione sulla violenza e sul ruolo dimenticato che essa dovrebbe ricoprire nella lotta. In Val di Susa si consuma ormai da anni una contrapposizione tra la ragion di Stato e le rivendicazioni di alcuni cittadini che questa grande opera non l’hanno mai voluta. Questa contrapposizione si è nel frattempo inasprita sempre più perché le ragioni del movimento No Tav non sono mai state veramente ascoltate.
L’Europa ce lo chiede, è già stato deciso, i vostri eletti hanno già dato l’assenso, la Tav si deve fare. Benché il traffico su quella linea sia drasticamente calato, venendo così a cadere le ragioni stesse dell’opera, le risposte date al movimento sono ancora sempre le stesse. Lo Stato ha insomma scelto di rispondere con rigidità e fermezza, manganellando, arrestando e fortificando il cantiere, dimostrando che considera i valdusini allo stesso modo di come gli americani ad inizio novecento consideravano gli indiani che vivevano dove loro volevano far passare la ferrovia, una fastidiosa popolazione autoctona. Oggi ai valdusini non vengono bruciate le case e distrutti i raccolti, a loro vengono mandati avvisi di garanzia e mandati d’arresto per resistenza alla forza pubblica e per sovversione. Essi vengono in parole povere demonizzati e la loro lotta criminalizzata.
Tra gli strumenti che lo stato utilizza a questo scopo vi sono anche quelli retorici. È così che con somma ipocrisia si insinua nel discorso pubblico (come sempre si è fatto d’altronde) la distinzione tra il manifestante buono e il manifestante cattivo, il violento, dimenticando che chi di violenza vive è proprio quello stesso Stato che pretende di condannarli. Che lo Stato si riservi il monopolio sulla violenza, dichiarandone l’illegittimità di ogni altro uso, è un’ovvietà fin dai tempi di Hobbes. Ciò che meriterebbe una riflessione più attenta, pur non essendo una novità dell’ultima ora, è l’abbandono della prospettiva di lotta violenta da parte delle forze politiche di sinistra con aspirazioni parlamentari (mi riferisco qui ai cosiddetti ex-comunisti e soprattutto a Rifondazione). Non solo è stata abbandonata da più decenni ogni strategia di radicale scontro col capitale e lo Stato borghese, ma è diventata ormai consueta la condanna della violenza in quanto tale.
Prima fu questione di strategia col compagno Togliatti, poi la difesa dei valori “democratici” coi suoi figli più bastardi. Ormai basta nominare gli anni di piombo perché a sinistra faccia presa una sorta di imbarazzo. Per questo motivo le ragioni dei No Tav non possono essere rappresentate dai Ferrero, la cui dialettica si intoppa al primo accenno alla colpa di aver voluto, tanto tanto tempo fa, l’abbattimento dello sfruttamento e del potere borghese, gli scioperi e i sabotaggi. Le più grandi conquiste a partire dal bill delle 10 ore e il diritto sindacale, sono state raggiunte da uomini e donne che avevano ben chiare la necessità e la dignità della violenza.
Non abbiamo però bisogno di dilettantismo e teste calde, bensì di disciplina costanza e obbiettivi chiari. Non si tratta neanche di fare l’apologia della violenza, in qualunque forma si esprima, ma di riconoscere un fatto basilare. Al contrario di come oggi vogliono farci credere, la contrapposizione tra chi il potere lo detiene e chi lo subisce, avviene sempre sul campo della violenza. Ha, infatti, torto anche Sacconi quando dice che il lavoratore e il datore di lavoro sono amici perché concorrono allo stesso obbiettivo di sviluppo. Tutto il contrario! I loro interessi sono infatti alla radice diametralmente opposti. La vittoria dell’uno è la sconfitta dell’altro. Allo stesso modo si erge una barricata tra chi lotta e la forza della legge, oggi più visibile di ieri per i valdusini, ma comunque sempre presente in ogni rapporto tra l’individuo e lo Stato. per questo semplice motivo bisogna rifiutare la retorica dei buoni e dei cattivi, dei violenti e dei non-violenti (per la maggior parte a sproposito ma questo è un altro discorso).
C’è bisogno che a sinistra si recuperi la consapevolezza di dover esser forza contro il sistema. L’ingiustizia non è più accettabile e democratica perché il sindacato cede al ricatto e firma l’accordo o perché i manganellatori si dichiarano democratici. Le ragioni della lotta, anche quando si esprimono violentemente e quando tutte le altre strade sono state percorse, non perdono di valore.
M.M.