Copenhagen: fallimento della green-economy e vittoria dell´economia carbon-fossile. Intervista a paolo cacciari

Dal 7 al 19 dicembre scorsi si è svolta a Copenaghen la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima. In quell’occasione in rappresentanza di 192 Paesi si sono incontrati circa 20.000 delegati per cercare di potenziare il protocollo di Kyoto, in ordine di salvaguardare il pianeta dai cambiamenti climatici dovuti al super-sfruttamento delle risorse energetiche.

Come si sa non è stato possibile ratificare nessun accordo che prevedesse una graduale diminuzione delle emissioni di CO2 e un investimento nelle energie pulite, in quanto la rigidità dei paesi più industrializzati a rivedere i propri standard di consumo si è scontrata con l’indisponibilità dei paesi più poveri a sacrificare le loro prospettive di crescita. Continue reading →

il numero 3 che non c’è mai stato

Per farla breve, nell’ultimo anno oltre  a laurearci, studiare e partirsene via da Roma (chi lo ha fatto) il collettivo che sostiene il giornale Ecrasez l’Infame ha continuato ad esistere ed ascrivere. Il numero 3 non è mai uscito, ma gli articoli erano pronti da tempo. Per questo motivo, mentre discutiamo su che futuro darci e dare al giornale, li pubblichiamo intanto qui. Molti sono pezzi di valore e non meritavano una fine ingloriosa. Restate conness

Novità

Ecrasez l’infame n. 2 è online da ieri sera. Oggi verrà distribuita la copia cartacea con un banchetto a Villa Mirafiori. Da questo numero in poi mandiamo (definitivamente?) in pensione questo blog. Le novità sul collettivo verranno comunicate su evertere.noblogs.org. Per leggere Ecrasez per via telematica, vi rimandiamo a www.ecrasez.altervista.org, dove troverete un archivio con tutti i numeri, che verrà via via aggiornato.

Buona lettura

Non violenza, mafia, università. Intervista ad A. Cozzo

Ricercatore e docente all’Università di Palermo, Andrea Cozzo è
soprattutto un attivista molto noto in quella città, oltre che un
teorico (e “pratico”) del pensiero nonviolento importante a livello
nazionale. Conoscendolo di persona, siamo amici ormai da anni, ne ho
approfittato per intervistarlo, incentrando l’attenzione su due
questioni: l’approccio nonviolento alla lotta alla mafia e la critica
al sistema d’insegnamento universitario. Ovviamente non ci siamo
limitati a discutere di questi soli due argomenti, ma abbaiamo toccato
molte altre questioni. Il tutto tramite una comoda, ma confesso
limitante, corrispondenza elettronica. Continue reading →

Il procedere dell’onda e la crisi di governo e opposizione

La lista dei ministri che hanno provato a smantellare o dequalificare l’istruzione pubblica è lunga. Forse il processo di cui la Gelmini è solo un esito inizia nel 1990 con Ruberti (contro cui nacque il movimento della Pantera) e passa per Berlinguer, Moratti e la coppia Mussi- Fioroni. Una delle linee- guida delle riforme è sempre stata la volontà di trasformare l’università in un laboratorio formativo di lavoratori utili al mercato, con l’esito distruttivo di una sempre maggiore dequalificazione del sapere. Oggi è l’ora del nuovo governo Berlusconi: il decreto 112/2008 convertito in legge il 6 agosto scorso (legge 133) prevede una drastica riduzione dei finanziamenti all’istruzione pubblica, dalle scuole elementari fino all’università, senza risparmiare la già tanto maltrattata ricerca. Dato l’enormità della crisi economica di un sistema economico e finanziario sull’orlo della recessione, questa volta i tagli sono stratosferici, mostrando a chiare lettere il vero intento politico: lo smantellamento sostanziale del “pubblico” in questi settori. Tagli complessivi superiori ai 10 miliardi di euro in cinque anni, riduzione drastica del personale tramite turnover all’università ed il ripristino del maestro unico nell’istruzione elementare (ma la riduzione comprende anche il personale Ata), invito caloroso alle facoltà a trasformarsi in enti privati: un attacco sistematico al funzionamento stesso del sistema. Che questo sia solo un tassello verso lo smantellamento del “pubblico” in tutte le sue forme è mostrato da provvedimenti paralleli: ad esempio, la gestione privatizzata degli acquedotti.                Solo per un’analisi superficiale questi fenomeni non sono connessi. Non dimentichiamo però, che, oltre i decreti 133 e 137, l’università italiana soffre di un malattia enorme e “antica”: il baronaggio. È questo vizietto, fra l’altro, che inceppa la macchina universitaria. Proprio il baronaggio rende talvolta i docenti di ruolo dei falsi alleati di questo movimento. Infatti, proprio per il potere che traggono dai rapporti baronali, essi hanno interesse a conservare parte dell’attuale funzionamento dell’università. Il baronaggio fa sì che il sistema universitario continui a riprodursi attraverso un meccanismo quantomeno contraddittorio. Il reclutamento dei sottoposti di un barone avviene, formalmente, per concorso pubblico, realmente per cooptazione “privata”. I “cooptati” sono sottoposti a forme di lavoro che nominare precarie è poco. La cooptazione inizia con scambi di favore tra baroni e aspiranti sottoposti: i secondi accettano di essere oberati dagli incarichi istituzionali e professionali dei loro cooptatori. Il premio? Un contratto precario in cui non è previsto tutto il carico di lavoro: correzioni di bozze, lavori a firma del barone, lezioni, ricevimenti ed esami al suo posto. Con la speranza che si liberi un posto. La precarietà è oggi il primo passo verso i privilegi accademici. La cooptazione, inoltre, impedisce la libertà di ricerca e, spesso, qualsiasi forma di pensiero critico. Essa rappresenta, nella fabbrica universitaria, i rapporti di produzione, ovvero di subordinazione tramite la costrizione del lavoro di ricercatori ridotti a “lavoratori del sapere”. Un barone lo si riconosce subito: basta guardare la coda di sottoposti che trascina dietro. L’ opposizione delle forze politiche parlamentari ed ex- parlamentari è stata, all’inizio, ai limiti del ridicolo in quanto a incisività (forse in linea con gli sfaceli di Fioroni- Mussi). Ha raggiunto l’indecenza, invece, con la proposta referendaria anti- Gelmini. Solo da partiti incancreniti nella stagnazione politica che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni potevano proporre un simile sbocco al movimento. Solo dal PD di Veltroni poteva venire questa proposta, solo il PRC di Ferrero poteva accodarsi. Il referendum è la ricetta proposta dall’opposizione istituzionale per evitare che l’ Onda cresca troppo; è il sintomo della profonda paura di una casta politica incapace. La loro ricetta non cambia mai: l’esautoramento del potere autorganizzato dal basso attraverso la burla elettorale. Del resto il referendum non potrebbe essere indetto prima dell’aprile 2010. Continue reading →

Aux armes, citoyens!

L’onda monta e non accenna a scemare, il mare è mosso, rosso, gonfio; eppure chi sa navigarlo non lo teme, lo conosce. L’onda siamo noi: il corpo vivo del sistema formativo: studenti, precari, dottorandi, chi in una posizione di disagio, se non addirittura di miseria, fa vivere l’università . Chi la ama per quello che desidererebbe fosse e la odia per com’è o come la vorrebbe rendere chi tenta di governarci. L’onda siamo noi! Quei volti sono i nostri, possiamo riconoscerci, nessuno escluso, che vi piaccia o no! E ci indigna, ci disgusta chi vorrebbe reprimere, catturare, ciò che sfugge, che è indominabile: ciò che appunto ha solo la FORMA DELL’ACQUA che scorre tra le dita. Quelle ferite che la violenza militare del manganello, della menzogna, del raggiro infligge a questo corpo , sono ferite che bruciano sulla carne di tutti noi, riaperta e infettata ogni volta dal morbo dell’indifferenza, rifugio impossibile per chi mira anche soltanto a sopravvivere.
Come potete pensare di starne alla larga, quando è semplicemente la vostra possibilità di futuro in gioco? I vostri sogni, quello in cui pensate di investire la vostra esistenza!.. "Spiacenti c’è la crisi.. Andate in malora! Bisogna dare i soldi a chi finora li ha trafugati e per voi solo qualche spicciolo: si può e si deve vivere senza sogni: STATE CON I PIEDI PER TERRA BAMBOCCIONI!".. Ma la terra frana che vi piaccia o no e chi abbiamo di fronte non ci ama. L’onda è grande, non si ferma, ma non si accontenta neppure: vuole tutti voi e non accetta deleghe. Quello che vi serve di sapere per agire lo sapete e sapete anche quello che serve fare: Facciamolo! Sapete bene anche che non sarà inutile, che chi usa violenza contro di noi, disarmati, è debole e che il governo è ogni giorno più incerto, ma non ci regalerà nulla se non continuiamo ad incalzarlo.
Non abbiate paura! Non serve, credeteci. Il momento è decisivo ed il nostro futuro è già qui.. Viviamolo! E’ quello che sappiamo fare meglio! Aux armes! Aux armes!

 
Didimo Chierico

 

Écrasez l’infâme!

Écrasez l’infâme!, schiacciate l’infame! – un imperativo illuminista
e liberale, firmato Voltaire che diventa il nome di un progetto
editoriale autorganizzato e militante. Questo giornale nasce polemico e
antiliberale, riconoscendo, come testimonia lo stesso gioco del titolo,
una sostanziale differenza di classe e di stile fra i vecchi liberali e
i contemporanei. Schiacciare l’infame dovunque si trovi, in Parlamento
come dietro una cattedra, in Vaticano come nelle università: ecco ciò
che ci siamo prefissi.

Un giornale militante, che emerge da un collettivo eterogeneo e
non identitario. Un giornale di battaglia filosofica che, al contrario
di quanto possa sembrare, non ha nessuna connotazione da violenza
gratuita. Come diceva Gandhi, per affrontare la violenza serve prima
far emergere il conflitto nascosto: l’emersione della violenza
intrinseca in ciò che studiamo, viviamo e respiriamo ogni giorno e la
lotta contro chi mistifica questa violenza e la giustifica
quotidianamente sono lo il nostro obbiettivo.

Écrasez l’infâme!
Questo motto ci ricorda che la politica nasce nel conflitto, alla
faccia dei moderni “liberal” buonisti. Il conflitto permea la nostra
società, ricacciato nell’ombra dal “politically correct” e dalle
acrobazie dei nani: il "ma anche", la tolleranza di chi ingloba l’altro
perché e finché resti minoranza silenziosa, e grida al pericolo ogni
qualvolta il rosso emerge nelle sue forme più o meno spontanee. Proprio
quel buonismo che è potere, quell’abdicazione a se stesso del
liberalismo degli scranni (il liberalismo ha sempre avuto questa
tendenza), è ciò contro cui questo giornale si scaglia, con la violenza
dell’«arma della critica», contro la critica dei manganelli. Così come
ci scagliamo contro questa idea di una filosofia non militante,
conformistica, dai toni sommessi, accademica e smorta che include
violentemente il pensiero in un gioco di specchi autoreferenziale, e
che sfoga la sua rabbia solo tra le frustrazioni di potere dietro le
cattedre e che, ovviamente, elegge il "pensiero liberale" come suo
caposaldo, tradendolo quando serve ed incarnandone a pieno l’anima
ipocrita.

Il vecchio pensiero liberale, come scrisse Raoul Vaneigem, morì nel 1871, nella repressione della Comune di Parigi.

Analisi politica post-elezioni

 Le elezioni del 13 e 14 aprile hanno portato l’Italia a passo con le
supposte tendenze generali che investono i sistemi
politico-rappresentativi dei paesi avanzati occidentali, seppur con le
proprie particolarità.
Qualcuno diceva che senza la semplificazione politica il paese non
sarebbe potuto andare avanti. In realtà si hanno, ora, due grandi
partiti, ma a ben vedere questi non hanno avuto un grande successo alle
elezioni, rispetto alle politiche precedenti. Il PD ha ottenuto il 33%
facendo entrare i radicali nel partito, quando solo “l’Ulivo” aveva il
31%. La PDL il 38% quando la somma dei voti di FI e AN si attestava al
39%. Restano, dunque, solo due contenitori attraversati da forti
contraddizioni  interne. Ma nonostante la percezione della gente sia
quella del bipartitismo, le vere novità sono la storica scomparsa della
sinistra dal parlamento e l’affermazione della Lega Nord. Il successo
della Lega sembra scandire ogni trasformazione politica italiana. Essa,
infatti, emerse alla fine della prima repubblica con le elezioni del
‘92, smascherando la crisi di quelle strutture rappresentative e
aprendo la seconda repubblica. Nel ’92 anche i più conservatori si
erano resi conto della fine dei due
blocchi ideologici, anche i più attardati avevano scoperto che c’era
stato un terremoto. Oggi la globalizzazione, che già da più di un
decennio produce le sue nefandezze, precarizzando la vita, eliminando
ogni tipo di garanzia sul lavoro, riformulando
una società fortemente classista e colpendo anche i ceti medi, è sotto
gli occhi di tutti. La Lega in questo contesto, da un lato, raccoglie i
voti del ceto medio e della media impresa, che impauriti dai venti
della crisi finanziaria agiscono in maniera
reazionaria. Dall’altro anche il voto degli operai, che non vedendosi
rappresentati nelle proprie garanzie sindacali da una sinistra che al
governo o in parlamento non ha e non può avere voce in capitolo
all’interno dei processi di globalizzazione, sceglie la
defiscalizzazione per la propria regione attraverso il federalismo.
Inoltre, questi processi vanno legati alla tematica
della sicurezza e dei migranti: la prima spettacolarizzata dalla
televisione, la seconda che sfocia oltre che in diffidenza anche in una
sorta di “concorrenza” fra poveri; ed entrambe le questioni vengono
connesse fra loro dalla retorica xenofoba e gli immigrati sono, quindi,
spacciati per i colpevoli di qualsiasi omicidio, violenza sessuale o
condizione malavitosa. Insomma un voto razzista. Quindi la Lega
rappresenta i ceti che rischiano di perdere la propria condizione e le
tendenze reazionarie della
società: vista la crisi che sta arrivando, questa sembra essere l’ideologia dominante.
La vittoria del partito di Bossi e delle destre sta proprio sulla
valutazione della crisi, rispetto all’ottimismo immaginario di
Veltroni. E le destre cominciano a fare un discorso di chiusura
protezionista, che sembrerebbe coerente per la Lega, ma
contraddittorio per gente liberista della Pdl. E si capisce, Berlusconi
avrà problemi, e già si vedono, a coniugare una visione federalista
della Lega ad una centralista e nazionalista di AN.
L’altro punto importante dell’ultima tornata elettorale è stata la
scomparsa della sinistra dal parlamento. Questa ha accusato il Partito
Democratico di avergli rubato voti e favorito il trionfo delle destre.
Certamente Veltroni non ha conseguito gli obiettivi sperati durante la
campagna elettorale. Se è riuscito a raccogliere voti al centro, non ce
l’ha fatta però a conquistare la gente del Nord e soprattutto a
sottrarre consensi attraverso la battaglia securitaria. Gli elettori,
tra la copia e l’originale  hanno preferito l’originale. E questa mossa
non ha fatto altro che spostare il dibattito a destra. La Sinistra
Arcobaleno, dunque, perde intanto per essersi avvicinata fin troppo a
queste tendenze e per aver accettato e ragionato secondo la governance.
Un’altro fattore può essere rintracciato nel non aver saputo dare delle
risposte alle domande che sorgevano dalla base. O meglio, per
un’incapacità di analisi dei fenomeni prodotti dalla globalizzazione,
cioè l’incapacità dei governi di agire su questo grande caos che
produce paure per il futuro, quali la precarizzazione della vita, il
vortice guerra-terrorismo e l’inevitabile catastrofe ambientale. E la
gente di fronte all’incertezza capisce di essere sull’orlo del baratro.
La paura, poi, si riversa nei voti alla Lega. In ultima analisi, la
principale causa della sconfitta è la pretesa, soprattutto da parte di
Rifondazione Comunista, di rappresentare non solo al parlamento, ma al
governo le istanze del movimento. Il tentativo era quello di creare un
partito di “lotta e di governo”. Infatti, nonostante il ciclo del
“movimento dei movimenti” si fosse in parte chiuso dopo la guerra in
Iraq, Rifondazione di fatto era presente nelle vertenze che tal volta
sorgevano (Acerra, Val di Susa).È finita un’epoca, il Novecento, quando
i partiti della sinistra si autonominavano rappresentanti dei diritti delle classi più deboli. E quelle forme di partito e del sindacato
oggi non sono più rappresentative. Questo a causa del caos prodotto
dalla globalizzazione che porta il potere ad una crisi controllo dei
mercati, del comando e della "governamentalità". E a tutto ciò risponde
con un ritorno al protezionismo economico, criminalizzando il diverso
(il drogato, il nero, il rom, il gay) e affrontando il problema della
sicurezza come il principale attraverso lo strumento della paura.